Ddl “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”

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Ddl “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” Nota della presidenza nazionale Acli

Roma, 29 marzo 2017 – I confini della vita tornano a interrogare la politica e a rappresentare l’esistenza di più etiche, che – anche a seguito degli straordinari scenari promessi dalla scienza e dalla tecnica – possono convivere e garantire un vero progresso solo se saranno a servizio dell’uomo e delle ragioni della vita. Per questo, il dibattito democratico dovrà essere intenso, leale e informato perché, solo a seguito di un confronto condotto con queste modalità, sarà possibile scrivere delle buone leggi, capaci di rispondere ai moderni problemi dell’uomo preservando quell’umanesimo che è la cifra vera della storia europea.

In questi giorni, il Parlamento italiano sta discutendo una norma in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (Dat), il cosiddetto testamento biologico. Anche la società sta dibattendo, attraverso convegni di approfondimento e prese di posizione che animano il confronto democratico. Anche noi delle Acli ci siamo interrogati e abbiamo deciso di scrivere una nota comprendente alcune riflessioni. Le offriamo come contributo al dibattito interno e come strumento per riscoprire le ragioni del nostro essere cristiani nel nuovo secolo.

Nodi cruciali del Ddl

Per tentare di fornire una lettura più completa e responsabile del Ddl, è necessario innanzitutto delineare in modo chiaro ciò che esso contiene e ciò che esclude, iniziando proprio da questa seconda parte. Il Ddl non legifera in materia diretta né il caso di eutanasia né quello di suicidio assistito. Entrambe queste pratiche sono negate in modo chiaro dall’art. 1, al comma 7.  Tuttavia, vi è il rischio che normando questa disciplina si aprano strade a altri scenari

Il decreto legifera in maniera diretta la possibilità di accettare o rinunciare (anche parzialmente) le terapie suggerite dal medico da parte del malato ancora capace di esprimere un consenso informato o che abbia precedentemente stilato una disposizione anticipata di trattamento nel caso che il suo consenso non sia più possibile. Tale dichiarazione viene attuata sotto la responsabilità di un fiduciario o, in mancanza di esso, del giudice tutelare. Sono, inoltre, fornite le modalità da seguire nel caso in cui il malato sia minore, interdetto o altrimenti soggetto all’autorità di terzi.

Tra le modalità e le garanzie richieste perché il consenso informato sia veramente tale non emerge il coinvolgimento di una équipe, composta da medici e psicologi, essenziale per un consapevole discernimento in un percorso di accompagnamento a una scelta che attiene alla vita o alla morte.

Proposte per un’etica condivisa

La complessità delle situazioni ci fa intuire quanto sia difficile scrivere una legge che possa essere non solo condivisa, ma anche interpretata in modo univoco.

Riteniamo utile l’emanazione di una legge che regoli una materia difficile come il “fine vita”. Una legge così è già presente nelle legislazioni di alcuni Stati americani fin dagli anni Novanta; in Europa è già contemplata negli ordinamenti giuridici dell’Olanda dal 2001, della Spagna dal 2002, della Francia dal 2005, del Regno Unito dal 2007 e, infine, della Germania dal 2009. Riteniamo che un’assenza legislativa arrecherebbe solo più sofferenza nella vita delle persone e delle famiglie direttamente coinvolte, correndo un duplice rischio: lasciare che la magistratura decida sulla materia, creando essa stessa il diritto ordinario; lasciare che si sviluppi un mercato parallelo “dell’ultimo trattamento”, che monetizzi aspetti particolarmente dolorosi della vita delle persone.

La questione di fondo, in questi dibattiti, è il rischio di trascurare l’esperienza della morte, con l’enigma che la contraddistingue: essa è un evento che non è in nostro potere e insieme ci sollecita a una decisione nella quale si colloca il senso definitivo della vita. Perciò il problema non è se morire, ma come morire e come accompagnare l’altro alla morte, sostenendolo in questo momento difficile.

Viviamo in una società che ormai ha smarrito la naturalezza con cui in passato si affrontava questo passaggio, ma che ha sviluppato un sufficiente senso dell’umano per accogliere e comprendere la sofferenza di chi vive solo grazie agli eccezionali strumenti della scienza e della tecnica, capaci di protrarre i giorni indipendentemente dal senso. Una società che però, pur manifestando preoccupanti tensioni verso una cultura di morte, non ha ancora sviluppato una reale cultura della morte, capace di accogliere serenamente il passaggio verso un’altra vita.

È dunque su questi elementi culturali che occorre lavorare per creare un’etica il più possibile condivisa su questi temi che sono, normalmente, divisivi. Per questo ci permettiamo di invitare a un’ulteriore riflessione – rispetto ai punti maggiormente dibattuti – circa la definizione delle pratiche di alimentazione e d’idratazione artificiale.

Equipararle a priori a terapie – e dunque soggette alla volontà di accettazione o di rinuncia da parte del malato – potrebbe portare alla negazione della loro naturale classificazione di supporti vitali e non terapeutici. Questo criterio va mantenuto sempreché esse non si rivelino gravose, sproporzionate e causa di ulteriori sofferenze fino a configurarsi come accanimento terapeutico. Il giudizio di proporzionalità comporta una valutazione dei danni e dei benefici che ogni cura arreca. Si suppone che questo giudizio spetti in ultima analisi al paziente stesso, anche attraverso le dichiarazioni anticipate di trattamento, qualora non sia più cosciente. Egli però non può essere lasciato solo in questa decisione, che andrebbe maturata in un contesto relazionale. Per questo, risulta di fondamentale importanza l’alleanza tra paziente, il suo fiduciario, il medico, i suoi familiari e, anche, le persone che svolgono il lavoro di cura.

Sottolineiamo, inoltre, il ritardo che il nostro Paese ha accumulato nell’accesso alle cure palliative e a una cultura dell’alleviamento del dolore. Dal 2010 esiste una legge pensata proprio per contrastare il dolore, la legge 38. Secondo i dati resi noti dall’Osservatorio per il monitoraggio della terapia del dolore e cure palliative, si tratta di una legge poco conosciuta. La società deve sostenere la lotta a questa sofferenza, dal punto di vista economico e morale. Occorre, per questo, investire in una rete assistenziale che renda il consenso, nel suo atto finale, realmente informato. Auspichiamo, pertanto, la realizzazione di un “Piano nazionale delle misure sanitarie e socio assistenziali inerenti i pazienti allo stato terminale” fatto di trattamenti palliativi efficaci, accessibili e diffusi, unitamente alla costruzione di moderni “hospice” che garantiscano l’assistenza sanitaria, sociale e psicologica ai malati e ai loro familiari.

Appello

I confini della vita e della morte sono una questione che, anche in futuro, continueranno ad interrogarci. Proprio per questo occorre elaborare un solido metodo di confronto, aperto e attento, capace di dare delle risposte pur imperfette alle tante – e a volte sofferenti – questioni umane. In questo senso pensiamo a un diritto mite come possibile riferimento alla nostra capacità di risposta e di normazione, che non può essere dissociato da un dibattito democratico altrettanto aperto e attento. Un diritto permeato da valori che tengano conto della mutevolezza del contesto. Un diritto che rispetti i diversi orientamenti, perché non si può racchiudere in una casistica la vita e la frontiera mutevole del ‘fine vita’. La forza della vita non è la vita forzata ad ogni costo. Invitiamo i nostri dirigenti e i nostri circoli a promuovere momenti di approfondimento e di confronto, che – assieme ai preti che ci accompagnano – siano capaci di rilanciare una vera cultura dell’umano.

La vita è un percorso naturale che non può essere interrotto per diritto ma neanche prolungato con la forza.

Ufficio Stampa ACLI – Vincenzo Mulè

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