Le Acli e il lavoro

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In occasione della festività del Primo Maggio le Acli ancora una volta hanno voluto rinnovare il loro impegno nella difesa dei lavoratori. La nostra vocazione a stare dalla parte dei lavoratori si è fin dalle origini intrecciata con la giustizia sociale, i diritti di cittadinanza, l’attenzione per le sorti del nostro Paese.

Art. 1 – L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Crediamo che oggi vada riscoperta l’inesauribile risorsa che è l’essere umano, la centralità che assume anche quando lavora, la dimensione relazionale che caratterizza il lavoro. Un rinnovato impegno per la tutela e la promozione del lavoro e dei suoi diritti, nel tempo della crisi del mondo globalizzato, significa ridare forza e respiro ai contenuti della nostra Carta costituzionale, cui il nostro fondatore, Achille Grandi, ha contribuito. Significa garantire le condizioni di un lavoro decente, evitando ogni forma di sfruttamento e di discriminazione, riaffermando il primato dell’essere umano sugli strumenti di produzione, sui beni materiali e tecnici, sugli stessi meccanismi economici e finanziari. In questi tempi difficili e in un momento in cui la rivoluzione tecnologica rischia di ridurre l’apporto diretto del ruolo del lavoratore, occorre promuovere una nuova cultura del lavoro, che gli restituisca dignità e valore, contro lo strapotere del capitale e della finanza internazionale. Il lavoro umano possiede anche un’intrinseca dimensione sociale. Partecipa alla tessitura della società. Crea la civiltà e la cultura. Il lavoro forma, plasma la nostra identità. Riscoprire il senso profondo del lavoro, promuovendo un lavoro di qualità, è un’operazione oggi imprescindibile per arrestare la pericolosa spirale di svalutazione del lavoro per cui i bassi redditi percepiti e l’indebolimento delle tutele non schermano più singoli e nuclei familiari dal pericolo di rimanere intrappolati nelle maglie della povertà.Il lavoro spesso è ridotto a strumento di sopravvivenza o, nel peggiore dei casi, è una forma di schiavitù. Il concetto di qualità del lavoro è di per sé multidimensionale e attinge a vari aspetti del “lavorare”: l’ambiente fisico di lavoro e le condizioni di salute del lavoratore, la condizione lavorativa degli occupati, il clima sociale, la percezione che il lavoratore ha, in termini di soddisfazione, del lavoro che svolge fino alle possibilità di sviluppo delle proprie competenze attraverso attività formative. Ognuna di queste sicurezze oggi è messa pesantemente in discussione dalla crisi che sta investendo il mondo del lavoro e dalla logica della flessibilità. Quest’ultima è cresciuta nella vita quotidiana e nel mondo del lavoro fino a frantumarne i legami, le situazioni e a smaterializzare i contratti. Ma le persone non si possono smaterializzare, come pure le loro biografie, che sono situate e tutt’altro che virtuali, e sulle quali, anche per questo, si sono scaricati i costi dell’elevata instabilità del sistema globale.

Art. 4 – La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Bisogna che flessibile non sia sinonimo di precario: l’insicurezza deve essere debitamente retribuita e se si perde il lavoro ci deve essere un sistema in grado di cercarne e rintracciarne un altro. Un sistema efficiente di politiche attive consentirebbe di passare dal momento in cui sono state smontate alcune tutele, ad uno in cui si pensa e si attua una rete di sostegno. Orientamento professionale, accompagnamento e incrocio con l’offerta di lavoro sono fondamentali per non lasciare soli individui e famiglie nel momento critico del passaggio alla vita lavorativa o nella transizione tra un lavoro e un altro. Nel peggiore dei casi, invece, il lavoro manca. A molte persone è negato questo diritto fondamentale, sancito dalla nostra Costituzione. Soprattutto ai giovani. Vista l’importanza del lavoro per la nostra identità e per la vita civile, privare un’intera generazione di questa esperienza vuol dire creare un danno inestimabile per il nostro tessuto sociale. Una società in cui il diritto al lavoro è vanificato o sistematicamente negato e in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, «non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale» (Compendio DSC). Le Acli nei loro orientamenti congressuali hanno ribadito la loro attenzione progettuale ai giovani, che rischiano di diventare i nuovi esclusi della nostra società. L’alto tasso di disoccupazione, la presenza di sistemi di istruzione obsoleti e di perduranti difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro minano la strada della realizzazione umana e professionale. È questo un dramma che colpisce, oltre ai giovani, anche le donne, i lavoratori meno specializzati, i disabili, gli immigrati e tutte le categorie socialmente più svantaggiate.

Art. 35 – La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero.

La disoccupazione giovanile è “una vera ipoteca per il futuro”, come più volte ci ha ricordato Papa Bergoglio. I dati parlano chiaro. In poco più di un decennio la disoccupazione giovanile è raddoppiata. Sia guardando alla componente dei giovanissimi (15-24 anni), sia tra i giovani adulti 25-34 anni, si nota un trend di crescita continuo. Tra i 15-24 anni si e passati dal 24% di inizio 2004 al 43% di fine 2016, mentre nei giovani adulti si è avuto un salto dal 10% al 20%. La flessione dei giovani che lavorano è molto evidente: in cinque anni, tra gli under35 sono andati persi poco meno di un milione di posti di lavoro: a inizio 2012 erano 5,8 milioni, a fine 2016 4,9 milioni; il dato ancora più preoccupante è che chi ha perso il lavoro non ne ha cercato un altro e questo denota la crescente sfiducia dei giovani (Documento di scenario, Giovani e lavoro, Iref). Questa realtà, drammatica, ci dice che stiamo perdendo la sfida più importante. Senza prospettive di lavoro, stiamo rinunciando al futuro e alla possibilità di costruire una società orientata verso il bene comune.

Art.36 – Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Ormai non si può fare a meno della costruzione di una moderna infrastruttura per la ricerca del lavoro, la formazione, riqualificazione e tutela dei lavoratori, anche perché stiamo vivendo i primi spasimi di quella che è una vera e propria Grande Ristrutturazione. La tecnologia sta impattando e continuerà ad impattare sul mercato del lavoro in maniera inedita, seguendo una logica incrementale che non ci garantisce il tempo necessario per adattarci al cambiamento. Senza contrapporsi al progresso tecnologico, riteniamo utile e urgente individuarne i limiti o gli “effetti collaterali” da evitare, ponendo al centro l’interesse per i lavoratori. Negli ultimi anni la tecnologia ha messo in crisi modelli di business preesistenti senza creare un impatto realmente benefico sull’economia e sul mondo del lavoro. Lo testimonia la lunga fase di ristagno economico in cui viviamo con tassi di disoccupazione che permangono a livelli drammatici. Internet ha creato sì nuove mansioni, caratterizzate da un’elevata qualificazione, ma ha anche contribuito a sottrare spazio ai lavoratori poco qualificati. Il progresso tecnologico sta portando molte aziende a sostituire la forza lavoro con il capitale: chi sta beneficiando dei nuovi assetti produttivi ed economici sono i cosiddetti innovatori, coloro che, attraverso l’utilizzo dell’automazione e della digitalizzazione, mettono in contatto domanda e offerta di prodotti e servizi su vasta scala assicurandosi rendimenti fino ad ora mai visti che non vengono redistribuiti ma impiegati per garantire la crescita (infinita?) del volume d’affari. Questo circolo vizioso sta contribuendo a determinare una progressiva concentrazione della ricchezza in poche mani e un accrescimento pericoloso delle disuguaglianze. Chi deve vivere del proprio lavoro oggi non vede affatto i frutti di questa inarrestabile innovazione, anzi sta subendo un progressivo peggioramento delle proprie condizioni lavorative.

Art. 37 – La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

La rivoluzione digitale in molti casi sta incrementando la “cultura dello scarto”, riproducendo un inedito squilibrio tra chi detiene il potere economico e i lavoratori escludendo, con un’accelerazione preoccupante, chi non riesce ad adattarsi ai nuovi tempi della produzione. Tempi scanditi non più da persone, ma da macchine e software. Dietro l’effigie della flessibilità e dello smart-working oggi spesso si nasconde la nuova frontiera della precarietà e dello sfruttamento del lavoro: il caporalato digitale. Sono i lavoratori della gig economy, l’economia “del lavoretto”, e quanti giornalmente si confrontano con la nuova frontiera del capitalismo: il “management algoritmico” che servendosi di sofisticate applicazioni sta via via eliminando gli elementi soggettivi e relazionali che caratterizzano la prestazione di lavoro.  Una vera e propria evoluzione del taylorismo, il taylorismo 2.0, che punta all’efficienza dei processi eliminando le relazioni umane e rifiutando quella che il filosofo austriaco Illich definiva “la convivialità”: «…Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. (…) Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipata dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale». La totale disintermediazione cui stiamo assistendo ci preoccupa non poco: credere di sostituire il giudizio umano con la risposta di un software in nome del profitto significa negare la centralità della persona. La Grande Ristrutturazione riguarda anche l’avanzare del nuovo paradigma produttivo denominato Industria 4.0 che cambierà la vecchia catena di montaggio mettendo in discussione i paradigmi del lavoro fordista con conseguenze dirette sulla vita dei lavoratori (sulle mansioni, gli orari, i luoghi di lavoro e le competenze). Questo, oltre al sempre vivo timore per la sostituzione dell’operaio e la cancellazione di posti di lavoro, ci pone davanti alla vexata quaestio del rapporto uomo-macchina e dei rischi di nuove forme di alienazione.La tecnologia, dilatando la dimensione spazio-temporale dell’ambiente di lavoro, rischia di generare un prolungamento delle ore lavorate che erode gli spazi vitali e il tempo da dedicare alla famiglia e alla cura. Inoltre come conciliare l’accelerazione tecnologica con la realizzazione professionale e umana? Ci sarà ancora spazio per la creatività e l’intelligenza emotiva e sociale, doti che distinguono il lavoro umano da quello meccanico? Occorre ribaltare la logica che regola il rapporto tra l’uomo e lo strumento di lavoro. La tecnologia, parafrasando ancora Illich, deve generare efficienza senza degradare l’autonomia personale, non deve produrre né schiavi né padroni, ma estendere il raggio d’azione personale. L’uomo ha bisogno di uno strumento col quale lavorare, non di un’attrezzatura che lavori al suo posto. Queste grandi trasformazioni pongono la questione di come migliorare le leggi di riforma del lavoro e i modelli di sicurezza sociale derivanti dall’epoca industriale che appaiono non più del tutto adeguati o insufficienti a tutelare i (nuovi) lavoratori senza soffocare l’innovazione, motori di un’equa competizione, della crescita, della creazione di lavoro e della protezione dei lavoratori. Si rende necessario un intervento a livello legislativo e regolativo che sappia interpretare e tradurre le istanze che emergono da un mercato del lavoro in rapida trasformazione. Occorrono dunque politiche del lavoro e sociali che sappiano dare cittadinanza, e dunque un nuovo orizzonte di tutele e diritti, ai “nuovi lavoratori”. Allo stesso modo la società civile e tutte le istituzioni, in primis quelle educative, sono chiamate a comprendere il portato dell’innovazione tecnologica nel mondo del lavoro e nelle vite di tutti noi, per costruire le fondamenta di una cultura realmente capace di comprendere ed elaborare il cambiamento. Ma senza un’opera di ripensamento in primis della logica che sta dietro all’istituzione industriale (il dogma della crescita accelerata a scapito delle relazioni umane) sarà difficile anche solo immaginare una nuova centralità della persona e una tecnologia realmente funzionale alla sua realizzazione professionale e umana.

Scritto dal Dipartimento del lavoro ACLI – Fonte www.acli.it

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